Arciconfraternita dei Sette Dolori - San Marco in Lamis (FG)

Alle falde di Monte di Mezzo, festanti di orti e vigneti, extra moenia, alla estrema periferia di un antico borgo montano con 328 fuochi, pari a 1640 abitanti, un sacerdote sammarchese, Costantino Iannacone, ob sui peculiarem affectum fece costruire, nel 1717, una “cappella” dedicata alla Vergine dei Sette Dolori, destinata, nel volgere degli anni, ad essere architettonicamente trasformata e ampliata sia per il diffondersi tra la popolazione del culto mariano ad opera dei padri Serviti, particolarmente attivi all'epoca in Capitanata, che per esigenze di sviluppo demografico e urbanistico in quanto già nel 1732 il numero dei fuochi era più che raddoppiato essendo stati censiti 3890 cittadini.
Nei primi giorni del 1749 i sacerdoti Eustachio e Tommaso Vincitorio e i signori Adeodato e Michelantonio La Piccirella, Giovanni La Porta, Michele Siani, Michele Serrilli, Pasquale Calvitto, Alberto Tusiani, Ignazio Sanguedolce e Domenico Antonio Cocciardi chiesero ai fratelli Costantino, Donato, Paolo Antonio e Giuseppe Iannacone lo ius perpetuum della cappella poiché all'unanimità essi disposero di arrollarsi sotto il Manto Sacro della Santissima Vergine per indegni servi, onde vieppiù godere la di Lei protezione facendone una congregazione di fratelli e sorelle ascritti in un libro perché a perfezione riuscito fusse l'intento.
La donazione trovò legale riscontro in un atto stipulato dal notaio Donato Augello il 23 agosto del medesimo anno, epoca nella quale si ebbe pure l'approvazione da Roma, per mezzo del padre generale dei Servi di Maria, fra Giovanni Piero Fancedi, dal quale don Eustachio Vincitorio ottenne ampia facultà di benedire 'il scapolare ossia abbitino e corona agli fratelli e sorelle di detta congregazione'.
Due giorni prima la Curia Romana aveva ufficialmente notificata l'approvazione della confraternita al canonico Giuseppe Torraca, vicario generale del cardinale Nicola Colonna, abate commendatario della badia di San Marco in Lamis.
Dalla lettura di ciò che resta dei verbali delle “conclusioni” assembleari si ricavano, talvolta con dovizia di particolari, dati informativi di indubbio interesse religioso, politico, sociale ed economico e tali insomma da offrire, sia pure in modo settoriale, si vorrebbe dire istologico, un frammento vivo di un'umanità ai margini della storia che affida le sue speranze al dolore della Divina Madre rivissuto come dolore per antonomasia, dolore tout court, che, di conseguenza, diviene dolore cosmico e panico'.
L'odierno clamore turistico della Processione delle fracchie durante la Settimana Santa, cui il simulacro dell'Addolorata fa da corredo e per la confezione delle quali, con inesorabile puntualità consensiva dei sindaci, si abbattono nella Difesa decine di alberi ad alto fusto, non riuscirà mai a recidere dalle radici dell'anima popolare il senso tragico della vita che, dalla notte dei tempi, appena appena rischiarata da anonime folle di tedofori, annualmente si rinnova nella drammatica ricerca della Madre per il Figlio perduto.
La mattina del 26 agosto 1749 venne convocata ad sonum campanae la prima assemblea dei fratelli fondatori della confraternita per l'elezione dei 15 “officiali” divisi in maggiori: Rettore, Prefetto (e poi Priore), Primo e Secondo Assistente e minori: Cassiere, Procuratore del Libro, cui si aggiungeranno il Maestro di Cerimonie, il Procuratore dei Morti, il Razionale, il Maestro dei Novizi, l'Archivario, il Deputato alle Feste, il Fiscale, il Tesoriere e il Sagrestano acciocché le cose vanno tutte ordinate a somma gloria di Dio e di Sua Madre Addolorata.
Intonatosi il Veni Creator Spiritus, don Eustachio Vincitorio invitò i ventisette presenti ad esprimere in scriptis il proprio libero voto. Risultarono eletti, nomine discrepante, alla carica di rettore lo stesso Vincitorio, di prefetto Diodato La Piccirella, di primo assistente don Costantino Iannacone, di secondo assistente Giovanni La Porta, di cassiere Ignazio Sanguedolce e di procuratore del libro Tommaso Vincitorio. Il neorettore, avvalendosi delle prerogative che la carica comportava, nominò, seduta stante, maestro di cerimonie Michele Siani e sacrestano Giuseppe Vincitorio.
A questo punto qualche interrogativo si pone.
Gli eletti a quali fasce sociali appartenevano? Perché sentirono il bisogno di aggregarsi? Probabilmente per non affrontare da soli l'incognita dell'aldilà. Lungi, per carità, dal togliere il mestiere a sociologi e antropologi mi limiterò, in questa sede, ad osservare che in circa due secoli e mezzo gli uomini (le donne non avevano diritto di voto e per essere chiamate sorelle dovevano pagare la quota associativa) scelti alla direzione confraternale proverranno, grosso modo, dalla piccola e media borghesia terriera, con la presenza nel suo seno di qualche rappresentante delle arti liberali, dalle corporazioni dei commercianti e degli artigiani e dal basso ceto dei contadini, possessori di minuscole 'cesine' boschive motivati certamente da spinte devozionali, ma anche desiderosi di ottenere una tomba gentilizia che li rendesse pari agli altri, almeno nella morte. Un modo di concepire questo assai diffuso tra la gente che sopportava la fatica del vivere quotidiano in attesa di una funzionante livella sociale nell'oltretomba.
Ma occorre tornare alle operazioni di voto per dire che con l'ingresso nelle assemblee degli analfabeti o, come allora si diceva, dei non scribenti, il problema elettorale si complicava in quanto, essendo ordinariamente la manifestazione del voto segreta, questa non poteva essere comunicata a voce, per cui ci sarà stato chi, con un lampo di genio, riuscì, in certo qual modo, a superare l’impasse affidandosi alla disponibilità dei legumi: i ceci furono considerati voti negativi e le fave di segno opposto.
Ebbe inizio così un vario e complesso capitolo di attività confraternali scandito di anno in anno dalla riconferma totale o parziale o dal rinnovo, non sempre sereno e pacifico, delle cariche con la partecipazione di un crescente numero di fratelli professi per discutere, nei locali della sacrestia, sugli argomenti previsti dagli ordini del giorno che verranno affissi di volta in volta, nel coro della chiesa.
Precipua cura 'per lo buon regolamento e governo della congregazione' da parte degli amministratori fu quella di porre mano alla compilazione dello statuto da sottoporre, non più all'arcivescovo sipontino, ma all'approvazione reale sentito il parere del Cappellano Maggiore.
L'assenso di Carlo III si ebbe il 30 luglio 1753 mentre qualcosa di poco chiaro dovette verificarsi nei rapporti con mons. Celestino Galiani, nativo di San Giovanni Rotondo, se solo 27 anni dopo si avrà, "in sanatoria", la soluzione della "vicenda" con reale dispaccio del 24 febbraio 1780.
Sempre, in modo vago e sibillino, sulle inadempienze burocratiche e sulle intemperanze caratteriali dei passati amministratori si discusse animatamente nell'assemblea del 17 gennaio 1754 nel corso della quale il priore Diodato La Piccirella assicurò il suo interessamento per la soluzione del problema dibattuto non senza, però, rivolgere ai presenti il perentorio invito a "non contravvenire a quanto la Maestà del Re, nostro Signore, ha concesso in dette Regole", ad essere "vigilanti agli interessi e che quando si deve procedere a qualche elezione essi abbiano sempre dinanzi agli occhi il timore di Dio e quello che l'alta mente di Sua Maestà (Dio guardi) ha stabilito e ordinato col suo reale diploma".
Gli anni che seguono fin quasi a conclusione del secolo, non offrono, al di là del rinnovo delle cariche (numerosi purtroppo i verbali delle 'conclusioni' distrutti da mani impietose) e delle normali attività caritative (educazione religiosa ai più bisognosi, assistenza ai fratelli ammalati, ai morti, per i quali si provvedeva ai funerali, alla sepoltura, alle messe di suffragio, distribuzione di elemosine per i poveri, dotazione di maritaggi per ragazze orfane, ecc.) e amministrative (annuali bilanci consuntivi e preventivi), nulla di particolare interesse se non la compilazione, nel 1772-73, di un primo cospicuo inventario di oggetti preziosi, arredi e paramenti sacri offerti da divoti fedeli e custoditi dal rettore pro tempore don Raffaele Cera e la richiesta per la istituzione nella cappella della Via Crucis.
Promotore di un tale exercitium fu il concittadino padre Giuseppe Maria Campanozzi, personalità di spicco nel mondo francescano, lettore, autore di ponderose opere teologiche il quale ne ottenne, il 27 settembre 1790, l'assenso del ministro provinciale padre Michelangelo Manicone, illuminato naturalista garganico di straordinario talento cui si deve, tra l'altro, la celebre Fisica Appula.
Ai fini di una più organica visione delle vicende che riguardarono o che comunque influenzarono la vita della confraternita, va detto che San Marco dai 5863 abitanti del 1767 era passata, in coincidenza con la fine del vassallaggio badiale, nel 1793, a 9000 anime ed ottenne da Ferdinando IV il titolo di 'città di regio patronato' che non risolveva certamente i gravi problemi esistenziali di tantissima povera gente rassegnata da sempre a porre 'nelle mani di Dio e della Vergine Maria' le proprie pene e le proprie speranze. Significativa a riguardo l'annotazione del cronista Angelo Gabriele Cera: "Già di giorno in giorno veniva ad aumentarsi il numero dei fratelli e delle sorelle, facendo quelli uso del sacco nelle processioni che in seguito con diploma del 29 luglio 1808 si ottenne il permesso di poter vestire di abito, mezzette, tracolla, cincolo, calzette, sandali e cappello bianco al collo pendente'. Affollatissime processioni dell'Addolorata si snodarono lungo la 'via maestra' della "città" con teorie di confratelli indossanti il "sacco" penitenziale, chiaro è il riferimento al saio francescano, soprattutto nel periodo di calamità naturali quali i terremoti e le siccità o per lo scoppio di epidemie o per il verificarsi di carestie che costringeranno i reggimentari, nel cuore del terribile inverno del 1793, ad alienare le sei 'Difese' comunali "acciò il popolo non perisse di fame", ma che lascerà pure un diffuso malessere sociale, alimentato dalle continue usurpazioni di terreni demaniali con inevitabile riduzione di usi civici, che esploderà, quanto prima, in tutta la sua drammatica imponenza e violenza, nei calamitosi giorni della Repubblica Partenopea.
Mancano, per la distruzione delle fonti archivistiche, operata non dai soldati francesi del generale Duhesme durante la repressione dei moti sanfedistici del 1799, come si è pervicacemente buccinato, ma dal disinteresse, dall'ignoranza o da chissà quali altri motivi, da parte di chi aveva l'obbligo morale e civile di tutelarle, le notizie sulla vita della confraternita i cui priori, a partire dal 1816, riceveranno, mediante specifiche circolari, gli ordini di convocazione assembleare dagli intendenti di Foggia. A rompere un così lungo silenzio provvederà l'infuocata assemblea del 21 settembre 1824 nella quale, pur avendo la maggior parte dei presenti oralmente espresso parere favorevole per la nomina a priore del signor Michele Iannacone, incontrò un'opposizione così violenta da parte di alcuni da far temere addirittura “lo scioglimento della congrega”. Il verbale non offre più di tanto. 
L'assemblea si sciolse con un nulla di fatto e occorreranno mesi e mesi di trattative tra i rappresentanti dei due partiti per concordare sul nome del signor Nicola Giampriamo che verrà eletto nell'assise dell'anno successivo.
Ormai la cappella non era più in grado di accogliere e di soddisfare le esigenze che l'accresciuto culto mariano imponeva ragion per cui si fece strada, fin dagli albori del 1820, l'idea o di abbatterla e costruirne una più ampia oppure di innalzarne un'altra uguale al suo fianco. Per evidenti ragioni economiche fu scelta la seconda ipotesi che trovò pieno accoglimento nell'assemblea del 15 settembre 1833. Si potevano subito iniziare i lavori in quanto a disposizione del cassiere v'erano già le somme ricavate dalla vendita di "tomoli 54 di fave, dalle elimosine procurate dai divoti e da tutti i donativi in oro e argento offerti dai fedeli Cristiani a San Donato Martire e alla Vergine Addolorata". Alcuni fratelli benestanti si mostrarono disposti a concedere un prestito di 350 ducati in oro, senza interessi, purché venissero affrancati dal pagamento dell'annuale quota di associazione. Tale somma o parte di essa sarebbe stata restituita col ricavato delle vendite delle sepolture gentilizie che si sarebbero costruite nel sottocorpo dell'erigenda cappella.
Si sarebbe poi pensato ad ottenere l'autorizzazione del seppellimento dei cadaveri dall'intendenza presso i cui uffici, nel dicembre del 1838, si recarono i deputati Gabriele Piccirella e il dott. Leonardo Tancredi per trattare, secondo la loro prudenza e badando al massimo risparmio, con chi crederanno più attivo e capace di fare ottenere [. . .] almeno un rescritto provvisorio. Nel novembre dell'anno successivo si mirerà più in alto. Si stabilì infatti nell'assemblea del 26 di donare a un tal Raiola, un personaggio evidentemente bene ammanicato negli ambienti ministeriali napoletani, 350 ducati, una somma di tutto rispetto ove si consideri che per una dotazione di maritaggio in genere non se ne superavano i 20, se riusciva ad ottenere il definitivo rescritto con l'autorizzazione del seppellimento dei morti nei 'gentilizi' di recente costruzione e l'impegno che si prenderà per far ottenere l'erezione di confraternita ad arciconfraternita. L'impegno è sottoscritto dal prefetto Ferdinando Palatella e da tutti i confratelli presenti alla riunione. Puntualmente si ottennero dalla capitale le superiori autorizzazioni per entrambe le richieste.
Erra chi, accettando passivamente informazioni desunte da altre non documentate notizie, sostiene, come aveva già fatto il cronista Cera, cui probabilmente fa riferimento mons. Paolo Carta nella sua prima visita pastorale, scrive che l'arciconfraternita venne eretta il 30 settembre 1834. L'arciconfraternita dell'Addolorata nasce ufficialmente il 21 settembre 1840.
Essendo la morte un'industria che giammai chiuderà i battenti, non scandalizzerà se anche uomini 'pii e divoti' useranno un po' di olio santo per ungere gli arrugginiti ingranaggi della burocrazia borbonica.
E con tipica mentalità borbonica si comportarono gli eredi di don Costantino Iannacone nei confronti della confraternita.
Ed è ciò che si deduce dalla non edificante lettura di un ampio verbale, scritto da mani diverse, di indubbio interesse cronachistico. Oggi che sono li 20 dicembre dell'anno 1831 in San Marco in Lamis. Noi prefetto e fratelli sottoscritti della venerabile congregazione dei Sette Dolori, dopo solennizzati in sagrestia ed a maggioranza di voti abbiamo risoluto quanto segue: Sulla occasione che gli eredi del costitutore della cappella della prelodata Addolorata Maria, Pasquale Iannacone, sua sorella Olivia e Raffaela Iannacone, nonché Rosa Sciesa, madre e tutrice dei suoi figli minori Iannacone, hanno deciso cedere i dritti dominicali del fondo della citata cappella alla venerabile congregazione dei mensionati Sette Dolori, per sollennizzare il contratto di cessione abbiamo eletti a presenziare avanti il notaio i nostri confratelli e prefetto Candeloro Cera, Donato Mallone, Angelo Serrilli, Simeone Tancredi, Paolo Tancredi, Crescenzio Serrilli, Fortunato Fabbricatore, Matteo Luigi Guerrieri e Saverio Nardella, quali ricevono le ample facoltà di accettare la cessione in esame, avendo il tutto per legale, rato, informo. Tale cessione fu eseguita dalle mentovate persone con titolo autentico e fu frustanea e di niun valore giacché dai loro antenati la cappella fu donata con ampie forme alla congregazione, come puossi rilevare da un istrumento del fu notaro Augello, quale conservasi dalla detta congrega. Quindi male si avvisarono il prefetto Candeloro Cera e fratelli regalare per tale cessione agli Iannacone e Sciesa docati cento, restituiti al signor Giuseppe Luigi Ciavarella nell'anno 1837 col peso dell'annua mora di docati sei. Tale danaro fu ritratto dalla vendita delle sepolture gentilizie costruite nella novella chiesa. Nonostante che la congregazione vantava dei diritti sia dalla primiera e bonaria donazione che dalla prezzolata, quando si eccitò nella stessa l'entusiasmo di ampliare detta cappella nel costruirvi colle sue pie oblazioni tre cappelloni al fianco della medesima, Pasquale Iannacone non contento del ricevuto, poiché altre volte profittato avea ora di danaro, ora di altre sovvenzioni, vantando sempre il dominio sopra la stessa cappella, strappò dal ridetto prefetto Cera altri docati ceduti per l'appoggio della novella chiesa oltre di tante cere, chiavi d'argento della Custodia, pianete, fiocchi d'argento furtivamente da lui presi e per malinteso timore tollerato.
Il 6 giugno lo Iannacone fu sorpreso con le mani nel sacco. Aveva, con chiave falsa, aperto un armadio asportandovi un calice d'argento per cui venne denunciato e arrestato. A 19 luglio si trattò la causa in Lucera e fu condannato a diciannove anni di ferri.
Una sentenza assurda, iniqua, tutta borbonica, che non rende onore alla memoria dei giudici che l'hanno sottoscritta i cui nomi si tacciono per un semplice atto di umana pietà.
Ma il 1837 fu anche l'anno del colera. Un anno che mise a dura prova la già grama esistenza della locale popolazione che con tutta pompa portò processionalmente per la città la Madre Celeste facendola stare esposta per lo spazio di due mesi per averci liberati dal contagio del colera che qui ha dominato per lo spazio di giorni cinquantacinque. Furono colpiti dal morbo 1197 cittadini con 359 morti.
È diffusa opinione tra gli studiosi di problematiche confraternali che ad un certo momento della loro storia chi le amministrava ha accentrato l'interesse, per ragioni di sopravvivenza, quasi esclusivamente sull'organizzazione dei funerali e sulla vendita delle sepolture trasformandole in vere e proprie organizzazioni di pompe funebri. Potrà una simile opinione essere discutibile ma i fatti però vanno tutti nella medesima direzione lamentata fin dagli albori del Settecento dal nostro Galiani.
Né si sottraggono a una spinta del genere gli ufficiali maggiori e minori della neoarciconfraternita i quali, non potendo più seppellire i morti nella chiesa per l'editto di Saint-Cloud, decisero, nella riunione svoltasi il 19 gennaio 1845, di proseguire i lavori per la costruzione della cappella che si sta edificando nel Camposanto e di nominare due deputati per la vendita “sulla carta” delle sepoltura al prezzo di trenta ducati 'per portare avanti la fabbrica [. ..] Si stabilisce infine ed all'unanimità cedere senza interesse alcuno una gentilizia alla famiglia del sig. Ignazio Centola il cui figlio don Berardino ha formato il disegno della detta cappella. Pur in tanta febbrile attività edilizia e devozionale, pur nella cordiale serenità dei rapporti tra i quarantasei confratelli con i rettori e i padri spirituali qualcosa di inquietante dovette succedere se il 9 giugno 1854 il canonico Luigi Giuliani inviò al priore e agli assistenti questa lettera: Signori, avendovi servito sei anni con tutto il cuore, siamo stati tutti con la santa pace ed unione fraterna fino all'anno scorso; da quel tempo in poi qualche fratello sedotto da certi sacerdoti pretensori e canonici miei nemici cominciarono a disturbarci. Ora non potendo più soffrire le calunnie ed i ricorsi di questi, ed avendo fatto ancora la renuncia della confessione e della rettoria al signor vicario capitolare di Manfredonia, renuncio ancora la vostra rettoria.
Voci di scandalosi contrasti nel clero locale dovettero arrivare all'orecchio di mons. Berardino Frascolla che "consigliò" il Giuliani a ritirare le dimissioni e a riprendere la rettoria per liberarla da ulteriori maldicenze che non giovavano oltre che alle persone alla sacralità del luogo. Ciononostante i contrasti si inasprirono anche quando al Giuliani, nel luglio del 1856, successe don Pietro Cera e a questi, nel dicembre del 1858, don Luigi De Carolis. Non c'era ormai più tempo da perdere. Nel giugno del 1859 il vescovo decise di compiere a San Marco la santa visita pastorale. Si recò all'Addolorata ove l'accolsero i fratelli dell’arciconfraternita e, seduta stante, nominò rettore don Domenico Giuliani e vice rettore don Luigi De Carolis.
Nel vasto piano antistante la chiesa si erano intanto radunate migliaia di persone in attesa di salutare il primo vescovo della nuova diocesi e per esprimergli gratitudine per l'amore filiale che monstrava alla Madre di tutti.
Uscì il Frascolla sul sagrato ove venne accolto da uno sventolio di bianchi pannilini.
Impartita la solenne benedizione rivolse alla folla brevi parole di circostanza alle quali aggiunse, come era nel suo stile e nel suo temperamento, dure, violente espressioni contro chi si serviva dell'anonimato per spargere insinuazioni e maldicenze sul prossimo e minacciando di scomunicare quei giovani che, strappando dalla testa o dalle spalle delle ragazze il fazzoletto, ne compromettevano l'onore. Rimase celebre il suo monito: maledetto, maledetto chi ruba il fazzoletto .
All'alba del 19 agosto 1860, è noto, quattromila camicie rosse guidate da Nino Bixio, provenienti da Giardini, sbarcarono in Calabria, sulla spiaggetta di Melito di Porto Salvo, ove vennero accolti dal sammarchese Marco Centola che in quel circondario amministrava giustizia (Nota 15).
Il 7 settembre, in un tripudio di bandiere tricolori, Garibaldi entrava in Napoli mentre Francesco II e Maria Sofia, a bordo di una fregata francese, veleggiavano alla volta di Gaeta.
Il notaio Leonardo Giuliani, per la quarta volta sindaco di San Marco, inviava, a nome di tutto il decurionato, un caloroso indirizzo di saluto e di fedeltà al Dittatore.
Da palazzo Tardio usciva, per la prima volta, un vessillo tricolore che fu portato in corteo da uno sparuto numero di liberali guardati con diffidenza e sospetto da una comunità che, scambiando la realtà con il desiderio, era ancora convinta che le truppe borboniche avrebbero prima o poi liberato il regno da una masnada di “scomunicati garibaldesi”: immediata, sinistramente imponente per le vie del paese, una contromanifestazione al grido di Viva Francesco II e Pio IX che impressionò lo stesso sindaco.
L'aria era carica di tensioni, di minacce e di inquietudini. In una temperie siffatta sorgeva a San Marco in Lamis l'alba dell'unità nazionale, desiderata ardentemente da pochi ed avversata dalla quasi totalità degli abitanti che allora ascendevano al numero di 17526 e che non intendevano accettare il nuovo regime politico.
Un'alba tragica che si tingerà di rosso per il sangue generosamente versato da Angelo Calvitto, un umile sarto, padre di numerosa prole, colpevole solo di aver manifestato la propria opinione favorevole al risorgimento d'Italia venne, a pochi passi dalla chiesa dell'Addolorata, pugnalato da due ceffi.
Dal sagrato della chiesa osservò il dramma il sagrestano, il cui nome invano si è cercato tra le carte dell'archivio parrocchiale, che subito si precipitò nel soccorrere il ferito e trasportarlo a spalle nei locali della sacrestia tra la generale indifferenza. Si preoccupò anche di avvertire la vicina famiglia del povero Calvitto di scappare di casa e trovare rifugio altrove. Di nottetempo chiamò il dottor Michele La Porta che tentò di suturare le ferite addominali del moribondo "sartore liberalicchio", come ebbe a chiamarlo, con sprezzante terminologia, uno storico di parte borbonica (Nota 19).
A quell'anonimo, civile e pio sagrestano il cui esempio di vita riscatta, come il sangue del Calvitto, dall'onta della vergogna un'intera collettività, sia consentito esprimere, non senza commozione, sentimenti di viva simpatia e gratitudine.
Ancora su quel sagrato nel mese di ottobre, alla vigilia del plebiscito, l'arciprete Francesco Paolo Spagnoli celebrerà, su di un improvvisato altare di legno, una solenne messa per implorare la protezione dell'Addolorata su di una sterminata folla di persone che gremiva il vasto piano antistante e alla quale, terminate le sacre funzioni, parlò il canonico Pietro Giuliani che aveva al fianco il vecchio genitore Leonardo, notaio e sindaco, e il fratello Domenico, rettore dell'arciconfraternita rappresentata in quel momento dal priore Ferdinando Palatella, dal primo assistente Gabriele Cera e dal secondo assistente Leonardo Tancredi. Il Giuliani fece di tutto, pur se in modo piuttosto ambiguo, per convincere gli ascoltatori a recarsi il 21 ottobre alle urne e votare a favore dell'unità. Non ci furono né santi né madonne a spingere i sammarchesi ad adempiere ad un loro preciso dovere civile: tutti, assolutamente tutti, con varie e diverse motivazioni, disertarono le urne presso le quali torneranno, una settimana dopo, con le baionette dei Cacciatori dell’Ofanto alle costole per esprimere tutti, nemnie discrepante, la loro adesione all'Italia una e indivisa sotto la guida di casa Savoia.
Ma questa, si sa, è un'altra storia.
Poche e di modesto rilievo sono le informazioni sulla 'pia unione' che si possono ricavare dalle superstiti carte del tempo fino agli anni settanta. I vuoti creati dalla scomparsa delle "scartoffie" costringe lo studioso a muoversi su di un sentiero buio lungo il quale, nella migliore delle ipotesi, potrà vederlo a tratti appena appena rischiarati dalla fioca luce proveniente da frammenti cartacei miracolosamente sfuggiti alla furia devastatrice dell'umana imbecillità.
Nel gennaio del 1873 l'arciconfraternita era priva di rettore se il vicario foraneo don Eugenio Moscarella "per speciale delegazione di mons. Geremia Cosenza, dovette presiedere l'assemblea che rielesse quale rettore don Domenico Giuliani, Michele Piccirella prefetto e primo e secondo assistente Gabriele Villani e Sebastiano Scarano'. E sarà proprio il Piccirella che nella assemblea del 31 agosto dello stesso anno farà 'estensiva' ai confratelli la notizia che 'a causa delle circostanze dei tempi, essendo ormai decorso qualche intervallo che si fosse solennizzata la festività, l'onorevole municipio con l'assenso dell'autorità politica aveva proclamato l'Addolorata Signora Padrona unica di questa città, proponendo di spostare dalla terza alla quarta domenica di settembre la solenne festività onde evitare la distrazione che avrebbe luogo con la fiera di San Matteo”. Sempre il Piccirella nell'agosto del 1876 cedette gratuitamente per un biennio il terreno attaccato alla chiesa dalla parte del nord ai sacerdoti Luigi De Carolis e Matteo De Cata a condizione che lo rendessero coltivo.
La fine del secolo e i primi decenni del nuovo sono caratterizzati, oltre che dagli impegni di routine, dalla concessione delle indulgenze plenarie e parziali stabilite dai pontefici Benedetto XIII e Clemente XIII con i brevi del 1724 e 1734 e notificate il 7 marzo 1888 dal cardinale Vannutelli confratribus et consororibus Societatis Septem Dolorum Beatae Mariae Virginis, da molteplici attività murarie e di restauro: ampliamento della sacrestia con la sopraelevazione di un piano da servire quale canonica e per abitazione dello scaccino, rifacimento della tettoia, sostituzione dei due altari 'privilegiati' in pietra con altri in marmo a devozione di Michelina Gravina a patto che la congregazione assumerà l'obbligo formale di celebrare ogni anno a partire dal 1893 in poi la festa di San Donato vescovo e martire (Nota 20); restauro dell'organo a mantice e ripitturazione della chiesa ad opera di Francesco Paolo Palladino per un importo complessivo di lire 3975.
Anche la cappella cimiteriale venne ristrutturata con la creazione di nuove file di loculi dalla cui vendita si appianarono i debiti contratti con privati cittadini e con le banche cooperative di San Severo e San Marco. Si acquistò pure un cavallo necessario per la questua del grano in campagna nel periodo della trebbiatura che consentiva il mantenimento dell'animale, il 'mensuale' alla persona addetta al suo governo e ai confrateli i mezzi necessari per rendere sempre “più degna di ammirazione” la settembrina festa della patrona del paese.
Altra fonte economica era costituita da quindici legati missari dei quali cinque avevano come dote beni immobili urbani con una rendita annua varia (nel 1937 la rendita complessiva era di lire 499,13), i restanti dieci invece avevano come dote titoli redimibili, cartelle, ecc. depositati presso l'ufficio amministrativo diocesano per una somma di lire 250,50 depurata del 2% sui beni immobili. Dal dicembre del 1896 al luglio del 1913 a priore venne eletto, quasi sempre, per unanime acclamazione, il dott. Pasquale La Porta che apportò un soffio di aria nuova nel sodalizio introducendo nell'assemblea del 7 giugno 1903 l'istituto del sacro patrimonio, titulus patrimonii, a favore di seminaristi meritevoli ma di disagiate condizioni economiche che verrà poi adottata da altre confraternite Locali.
Si trattava, in buona sostanza, di intestare dei beni immobili dell'arciconfraternita, con provvisoria perdita di rendita e di usufrutto, ai nominativi dei seminaristi prescelti fino a quando 'non s'impartisca loro l'ordine maggiore del suddiaconato'. Divenuti sacerdoti finisce l'effetto della cessione conseguendosi un duplice vantaggio: quello di soccorrere giovani degni di considerazione e quello della congrega di provvedersi di cappellani che scomputeranno in messe piane il debito per il bene ricevuto.
Medico, pubblicista (Nota 22), sindaco, oratore ufficiale in tutte le manifestazioni civili riguardanti fatti e personaggi della storia nazionale e locale, godeva di vasto prestigio nella comunità e nella congrega le cui assemblee, per diciassette anni, diresse con rigore e puntualità e con assoluto rispetto procedurale degli argomenti da approvare o respingere. Dava spazio alle altrui opinioni che trovavano sempre formale riscontro nella stesura di verbali redatti in forma ora più vicina al corretto uso della lingua italiana.
Anche se più o meno indistintamente, i confratelli avvertivano la presenza tra di loro di una forte personalità che agitava problemi nuovi e più complessi, alcuni dei quali riguardavano le funzioni dei rettori e dei padri spirituali nello svolgimento delle loro specifiche attribuzioni nell'ambito della corporazione religiosa. E rettori e padri spirituali ne sentirono chiaramente il peso in quanto l'ingerenza priorile, diritto canonico alla mano, tracimava nel campo riservato all'esclusiva competenza dell'ordinario diocesano. Non mancarono in merito manifestazioni di disagio con esplicite contestazioni assembleari non tanto sulle sottigliezze canoniche da non mettere troppo in evidenza, quanto sulle pastette elettorali: ad ogni apertura di riunione c'era sempre qualcuno che ad alta voce proponeva, per alzata di mano, la riconferma a priori del dott. Pasquale La Porta. È quanto si ricava dalla lettura di un lungo, interessante verbale del 17 dicembre 1911 e che rappresentò, oltre la testimonianza dell'asprezza del dibattito, un punto di svolta nella evoluzione dei rapporti tra laici e clero nella gestione delle confraternite paesane.
Erano presenti in assemblea 72 confratelli con diritto di voto ai quali il dott. La Porta rivolse un cordiale ringraziamento per essere intervenuti così numerosi. Non fu del medesimo avviso il rettore don Giovanni Soccio nel vedere una così folta presenza di associati che “non si sono mai fatti vivi pel passato e che si presentano ora solo perché si deve votare”. Breve replica del priore con richiesta di chiarimenti. Fatto l'appello nominale, il vicerettore don Antonio Giuliani protestò “contro questa votazione perché doveva essere fatta per votazione segreta poiché i fratelli hanno paura (sottolineato nel verbale) e si dimise pubblicamente dalla carica” allontanandosi dalla sala. Urla e proteste da parte di alcuni. Si procedette alla votazione a scrutinio segreto con palline bianche e nere. Fatto il computo dei voti favorevoli 69, contrari 5 al seguito di che viene proclamato eletto a priore per l'anno 1912 il comm. Pasquale dott. La Porta.
Morì l'anno dopo e i confratelli, nel trigesimo, fecero celebrare messe in suffragio della sua anima stabilendo che il prossimo 21 settembre la processione dell'Addolorata si svolgesse senza l'accompagnamento della banda musicale e senza lo sparo dei mortaretti.
Gli successe nel priorato il sig. Nicola Villani, procuratore legale, cui si deve l'ampliamento della cappella del cimitero realizzato dal 'maestro d'arte' Leonardo La Porta con un impegno di spesa di lire ottomila.
Silvestre Tricarico, da quarant'anni al servizio della congrega, venne eletto nel 1917. Lasciò l'incarico, l'anno successivo, al sig. Francesco Paolo Piccirella che portò a compimento i lavori cimiteriali. Amministratore di provata esperienza e capacità fece compilare i bilanci e i rendiconti di cassa con moderni criteri gestionali in maniera tale che chiunque ictu oculi, poteva dettagliatamente rendersi conto delle annuali entrate ed uscite.
Con l'elezione del dott. Giuseppe Tricarico, avvenuta il 27 gennaio 1924, si chiude il registro delle "conclusioni" ma non l'attività dell'arciconfraternita se in un arco di tempo che va dal 1919 al 1937 e cioè all'epoca dei rettori don Antonio Contessa, don Angelo de Theo e don Antonio Tiani tennero, fra gli altri, pergamo nella chiesa religiosi che rispondevano al nome di Giovanni Semeria, Vittorino Facchinetti e Pio Ciuti. Un barnabita, un francescano e un domenicano che onorarono di loro presenza la "città" che, pur mutati tempi e costumi, intatta conserva la devozione per la sua Addolorata.

Tratto da "La Chiesa dell'Addolorata di San Marco in Lamis e la sua Arciconfraternita 1717 - 1937" di Tommaso Nardella

 

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